Marcella Ferro
E’ nell’Oggetto che l’artista Antonio Ambrosino ricerca il senso del suo lavoro. Modellando piccoli tasselli di un tempo da lui scomposto, frammentato. Laddove, però, si legge chiaramente il segno del suo scorrere marcato e netto. Un logorio lento, scuro che quasi sembra portare alla perdita di un senso, a causa della sua sistematicità. Il suo tempo oggettuale non ha un moto ciclico e nemmeno una direzione orizzontale. I suoi oggetti si stagliano verso l’alto, a riempire lo spazio del nostro immaginario, attingendo dal suo e riportando alla luce porzioni di angoli bui. Invertendo il normale meccanismo della visione per cui nell’oscurità esplode la luce, con il suo modo di operare, Ambrosino nella luce riesce a far esplodere l’oscurità. E’ l’oggetto che attraverso le sue infinite pieghe ci suggerisce la dinamicità, la distorsione, le lesioni di un tempo che perde la sua matematicità per divenire esso stesso un oggetto manipolabile. Porzioni di terracotta che vengono a galla da un magmatico ribollio interiore. Terra di sud, terra arsa di confine, terra di dove finisce la terra, direbbe Vinicio Capossela. Eppure egli stesso attraverso la sua composizione ci suggerisce che a tutto questo nero che sembra poter stringere il nostro sguardo in una morsa c’è una ipotesi risolutiva. Piccole porzioni chiare di tono ci danno respiro, in una ritmica che appiana la tensione, mostrandoci al di là del buio piccoli sintomi luminosi di una realtà che si spacca. L’infinito si mostra.